Sul treno, di ritorno da una giornata di formazione, mi lascio cullare dalla musica.
Vinicio Capossela mi accompagna spesso, ma questa sera qualcosa cambia: le sue parole arrivano in un punto più profondo.
C’è una canzone, in particolare, che accende una luce nuova.
Parte “Con i tasti che ci abbiamo” e all’improvviso sento che lì dentro, in quelle parole, c’è tutto l’Approccio Capacitante.
Il brano, tratto da “Tredici canzoni urgenti”, è una riflessione preziosa sull’imperfezione: racconta di un pianoforte che suona con tasti rotti, mancanti, scordati, una metafora potente per descrivere chi ha perso pezzi di sé, ma non ha smesso di “suonare”.
Non come prima, non come avrebbe voluto, ma con quello che gli è rimasto.
“Con i tasti che ci abbiamo
Solo quelli suoneremo…
E di un limite faremo una possibilit”
In queste parole sento un invito limpido all’accoglienza. Non si tratta di correggere l’altro, di riportarlo com’era ma di stare con lui nella sua nuova musica, anche se imperfetta, anche se frammentata, perché è ancora musica. È ancora vita.
“Non è l’utile la fine del gioco
Il fine del gioco è giocare
Non è un limite quel che si è perduto
Anche i buchi possiamo suonare”
Nel contesto della demenza, quei “buchi” non sono ciò che un familiare si aspetta, non sono ciò che si vorrebbe sentire. Ma sono ciò che l’anziano riesce ancora a suonare. Il compito di chi si prende cura, allora, non è forzare la memoria ma provare ad accordare la relazione su ciò che resta:
Significa creare un ambiente dove quel poco, quel frammento, quel suono storto abbia ancora senso, valore e dignità.
E poi Capossela me lo ricorda con forza: la cura è anche ascolto.
Non solo delle parole, ma dei gesti, dei silenzi, delle emozioni che filtrano tra una dimenticanza e l’altra ed il caregiver diventa allora un interprete attento di questo “nuovo spartito”: non giudica l’errore, non pretende coerenza, ma accompagna il proprio caro nel suo Mondo Possibile.
E lo fa – anche lui – “con i tasti che ci abbiamo”.
Perché anche il caregiver, spesso stanco, provato, impaziente, non è perfetto ma può comunque suonare e può farlo insieme a chi si prende cura di lui, in uno scambio che diventa musica.
Sul treno, con Capossela nelle orecchie, sento questa canzone come una dichiarazione d’amore all’essere umano nella sua imperfezione.
Un inno alla vita che non si spegne nella dimenticanza, ma persiste nonostante tutto.
E per chi vive accanto a un anziano smemorato, queste parole diventano un promemoria prezioso:
non serve rincorrere il passato, ma continuare a fare musica insieme così come si può, anche con tasti rotti ed il suono che non è più quello di una volta.
Perché ciò che conta è esserci.
È suonare insieme.
È non smettere di ascoltare.
Chiara Giacomelli
Lascia un commento